Quarto giorno di viaggio | Martedì 20 settembre 2011 | Rivergaro – Rapallo
Dopo giorni passati a schivare le gocce, con risultati quanto mai fallimentari, i piedi sempre in ammollo e l’animo che in alcuni istanti s’era fatto più cupo delle stesse nuvole attraversate, ebbene nella mattina del quarto giorno, dopo un sonno reso ancor più profondo dal rosso Gutturnio della sera antecedente, la prima cosa che vedo spargersi nella stanza, come un lieto presagio, è il sole! Ah, quale meraviglioso risveglio! Svelta preparo i bagagli, ché di tempo nella traversata ne ho perso sin troppo, e con nuovo impeto metto in moto la Poderosa – l’intrepida finalmente s’è asciugata e non tossisce più all’accensione – e con rombante tripudio corro lungo tutta la vallata, volendo quasi svegliare gli abitanti, travolta dal moto incontenibile di gioia di quella mattina.
Alle dieci ora locale, mi aggiro con un sorriso stampato in volto, fra le vie del paese di Bobbio – Bobbio!! Vi rendete conto?! –. Mi prendo il tempo di scattare alcune immagini della chiesa, poi della ruota di un vecchio mulino lungo l’antica strada che dall’abitato conduce al Ponte. Quale piacevole sensazione nel girovagare per il borgo, al limite del bighellonare, saltellando con la spensieratezza di un bambino nel meriggio del sabato, il quale, raggiunta la banda del quartiere, nel segretissimo rifugio del Campo del Vicino, escogita strabilianti piani d’attacco volti alla conquista dell’albero di fichi, limite invalicabile oltrepassato il quale gli acerrimi nemici del civico 22 stanno ordendo altrettanti piani diabolici.
Ma torniamo a noi e al nostro Ponte. Va detto che per giorni e giorni era svanito all’orizzonte delle mete quotidiane, per trasformarsi, sornione e beffardo, in una mistica Mecca del viandante. Orbene, ci crediate o no, il 20 settembre 2011, al chilometro quattordicimila novecento quarantatre, la Ninetta ed io gli sfrecciamo a fianco, celebrando il lieto evento con una nostra particolarissima danza a serpentina, rituale sacro di festeggiamento per il traguardo raggiunto!
Ora, dopo tanto averne parlato, mi rendo conto che le foto non rendono abbastanza bene, ma v’assicuro: il ragazzo è proprio gobbo! Con le sue undici campate diseguali, il ponte deve il duplice titolo – gobbo e diavolo – ad una poesia dialettale dei primi del novecento, recante l’antica leggenda del diavolo, il quale, per far dispetto agli abitanti di Bobbio, rese il ponte gibboso nel subdolo intento di allontanare i fedeli dal monastero sito dall’altra parte della Trebbia*.
C’è da dire che nel mio piccolo adoro le leggende popolari. Hanno quel retrogusto sapido di sudore e terra, di boschi e focolare e, sebbene ai nostri occhi consumati esso può apparire semplice, in realtà cela le speranze, le disfatte, gl’impeti, la rabbia di coloro che un tempo hanno dimorato laddove noi oggi dimoriamo. E se proprio vogliamo dirla tutta, sfido io a trovare, nei tanto raccapriccianti quanto comici racconti di un giovane alle prese con un’agenzia interinale, un barlume di saggezza o qualsivoglia racconto capace d’imprimersi nella memoria collettiva ed in grado di attraversare, se non proprio un secolo di storia, almeno una manciata di decenni!
Ma torniamo a noi. Sì, Bobbio dicevamo. Dunque, terminata la visita al paese, riprendo il cammino, imbattendomi di lì a poco in un irresistibile bivio. Consulto la mappa, e in men che non si dica decido per una piccola deviazione dal percorso, non ponendomi neanche lontanamente il dubbio che, salendo di così tanto, la temperatura avrebbe potuto abbassarsi e la Ninetta, per quanto audace e coraggiosa, avrebbe potuto avere qualche difficoltà ad affrontare una pendenza del 11%. No! Assolutamente no! Il cielo è limpido e nulla può fermarmi. Tocco così con mano raggelata e tinta porpora il Passo Penice a 1.460 strepitosi metri sul livello del mare, e mi concedo una breve sosta per godere del panorama.
Un po’ intirizzita, ma con la stessa calma e determinazione dell’arrampicata a Penice, riprendo la via che da Bobbio conduce alla riviera di Levante. Dopo numerosi tornanti abbandono la Statale 45, per addentrarmi lungo l’ancor più angusta Provinciale 586, nella fervente aspirazione di seguire le sorti dell’Aveto e tagliare di un bel pezzo la strada per Chiavari. Il fiume non si vede, ma a tratti, tirando forte le orecchie, lo puoi sentire gorgogliare, laggiù in fondo, da qualche parte. La valle sottostante ne raccoglie i frutti del lento, quanto persistente scavare, ed in tal luogo, intriso di perseveranza, all’altezza della Madonna del Roccione, festeggio i 15 mila chilometri della Ninetta. La luna mi sta a guardare ed io ho la sensazione che ogni elemento abbia trovato la giusta collocazione nello spazio e nel tempo.
Doppio Rezzoaglio alle 13 in punto. Oramai manca poco. Se mi sforzo un po’, già lo posso sentire il profumo del mare. È lì che m’attende, pacifico e inamovibile, ed io, io corro da lui, corro come ammaliata dal canto di una sirena, senza nemmeno provare il desiderio di resistere al suo vasto, insostenibile fascino.
Chiavari | ore 14.40 | km 15.061
Sono arrivata al mare! Mi faccio baciare dal sole, a lungo. La distesa d’acqua è di un azzurro straordinario. Stringo la fatica che mi ha portato fino a qua, facendomi ora gustare la densa salsedine dell’aria. La brezza mi accarezza il viso ed il riflesso del sole sull’acqua, con quel suo riverbero abbagliante, mi riempie gl’occhi. La Ninetta riposa sotto un pitosforo-albero ed io, sono felice.
Rapallo | ore 17.00 | km 15.089
Dopo una tragica presa d’atto che il Camping Miraflores – postazione identificata già da Gorizia come campo base per due giornate – si trova drammaticamente a fianco del casello autostradale, ed anche nella piazzola più sperduta senti echeggiare il rombo delle autovetture proprio sopra al cranio, faccio un bel respiro e consulto il mio navigatore a distanza, per trovare una via d’uscita dall’empasse. Imbocco così una stradina minuscola, che corre fianco a fianco ad un fiumiciattolo, il quale, nel suo lento andare e venire, mi promette generoso un tasso d’umidità del 90%. Cerco di ignorare la quantità di muschio del quale pure gl’alberi sono ricoperti e decido di fermarmi lì. Il campeggio è grazioso. Umido, ma grazioso. Con cura scelgo la piazzola e rapidamente monto il campo. Infine, con gesto solenne e postura propria – pancia in dentro e petto in fuori –, isso orgogliosamente la bandiera della Ninetta.
La prima meta è conquistata.