Nono giorno di viaggio | Domenica 25 settembre 2011 | Portovenere
Apro la zip del tendino, dopo una disastrosa nottata spezzata da tuoni e fulmini che il cielo ha mandato d’un sol colpo, costringendo il nostro eroe ad un bagno imprevisto per sottrarre alla furia degli elementi il tanto amorevole bucato fatto il giorno prima. Per non parlare del salvataggio del casco in extremis, il quale, secondo la dura legge di Murphy, se ne stava a pancia all’in sù ad accogliere un mucchio di goccioline, venendo così trasformato da severo protettore del cranio a grazioso abbeveratoio per passerotti. No, non c’è proprio verso! Fine settembre garantisce la calma del post sbornia feriale, ma porta inesorabilmente con sé l’angusta stagione delle piogge.
Esco fuori dal guscio scansando le pozzanghere e cercando di intravedere, al di là dei rami d’ulivo, se per caso il cielo s’è acquietato. Niente. Consulto il meteo del campeggio e, ponderando bene la serie di nuvole stilizzate sul foglio, opto per una saggia modifica dell’itinerario, rimandando all’indomani la tanto agognata prima escursione nelle Cinque Terre. Messi da parte scarponi e divisa da trekking, sorseggio un caldo caffè, valutando sulla mappa le alternative possibili e, interrogati a lungo i fondi, decido infine per la visita alla città di Portovenere, con passaggio a Pignone, antico borgo romano contraddistinto per la bellezza dei suoi carruggi.
La nebbiolina che avvolge il borgo di Pignone gli dona un fascino spettrale, tale da riportarne alla luce gli antichi splendori medievali in stato di perfetta conservazione. Con l’immancabile fedele poncio – oramai – cucito addosso, lo attraverso, quasi non rendendomi conto della scena d’altri tempi che io stessa, avvolta nello scuro mantello, col capo chino e fare schivo, creo, fendendo a passi lunghi la coltre di nubi adagiata al suolo.
Al margine del sagrato della chiesa assisto, curiosa ed infreddolita, al rito domenicale dei saluti dopo la funzione. C’è chi, col vestito bello, s’appoggia al bastone e salutando i parenti, lento s’avvia verso casa, o chi ancora, portando nelle nere vesti il lutto della perdita, ricorda melanconicamente il gesto dell’andare a braccetto, lungo la discesa che dalla chiesa porta al bar centrale del paese, dove, domenica dopo domenica, anno dopo anno, amandosi ancora come fosse il primo giorno, la coppia più bella di Pignone, soleva bere il caffè, leggendo il giornale.
Con inferiore gesto d’amorevole condivisione, ma con la stessa concreta necessità di tepore, tento anch’io di recarmi al bar. Ma i tempi sono cambiati ed alcuni piccole movenze, testimonianza vivida della sacrale quotidianità, si perdono ora nel ricordo della vedova e nella mia accorata osservazione della serranda abbassata del Caffè Centrale. Saluto il borgo, portando con me il profumo delle rose selvatiche al margine del ponte, insieme alla tristezza della donna celata sotto un “arrivederci miei cari”.
Lungo la Provinciale 38 in direzione La Spezia, con la visibilità ridotta drasticamente ad una manciata di metri, a tentoni trovo ristoro in una modesta locanda. Fuori la pioggia perora la sua causa, e nel mio decido di attendere il momento migliore per rimettermi in marcia, approfittando del calore di un fungo a gas per asciugarmi le ossa. Combattuta sul da farsi, se proseguire alla volta di Portovenere, oppure se tornare all’ovile, comprare un libro e trascorrere l’intera giornata leggendo, cerco di guardare dentro di me per trovare le risposte. E non faccio neanche in tempo a gustare l’immagine del sacco a pelo con buon libro, che la spinta indomita e a tratti suicida, simbolo dell’inarrestabile lotta fra indolenza e ardore – squisita peculiarità dell’intera famiglia Fasano –, prende il sopravvento, trascinandomi lungo la china di una pessima strada, in cui il manto vischioso e limaccioso rappresenta la sua parte migliore, se posta in confronto alle ricorrenti quanto insidiose fratture dell’asfalto.
Alla velocità di 35 km/h giungo a La Spezia e, nel doppiarne la consueta grigia periferia, convengo con me stessa sul fatto di trovarmi di fronte all’ennesimo, anonimo, tratto indistintivo delle città post moderne.
Tutte uguali sono le periferie del mondo! Dovunque tu vada, a prescindere lo stato sovrano di appartenenza, sono fra di loro identiche e segretamente figlie di un cattivo sogno dell’uomo urbano. Grigie al 89%, con qualche punta di colore gentilmente regalata dai panni stesi – nella migliore delle ipotesi – oppure da macroscopiche insegne pubblicitarie – nella peggiore –, sono per la maggior parte composte da un malcelato substrato cementoso, nei cui sviluppi più nobili, è stato generosamente coperto da un tenace manto di muschio verde. Fra i connotati principali si distingue la mestizia, vero e proprio impregnante della loro desolazione, generata a sua volta da una avvilente uniformità – come se ciascun essere, in questo caso umano, fosse identico all’altro –, simbolo non solo di cattivo gusto architettonico, posto al limite della pigrizia cerebrale, ma anche della più recente avidità edilizia, che dagli anni sessanta e con furore ha sparso la sua pochezza come strali attorno ai nuclei storico-pulsanti delle cellule cittadine.
Ma dicevamo, con la lentezza di un pachiderma agonizzante, approdo infine a questo lembo di terra – Portovenere –, bagnata d’acqua e di cattivi presagi. Lungo la strada infatti, a causa del limo e della pessima manutenzione stradale, il bolide è sfuggito più volte al mio controllo, lasciandomi addosso la sensazione di danno imminente, grave e irriducibile, la quale, come una densa coltre nera di pura angoscia, si è appoggiata sul cuore, impedendomi il regolare flusso dei pensieri e la conseguente attività di elaborazione dei dati sensibili.
Capita, a volte, di sentire viva la pulsione di morte. Accade in genere quando, durante le traversate su due ruote, perdo la gestione del mezzo, ma costretta dalla necessità, devo continuare la marcia, o perché mi trovo in mezzo al nulla, oppure perché – e sono i momenti più difficili – mi rendo conto di essere lontana mille miglia dal rifugio sicuro del focolare domestico. Sono i momenti in cui la paura, stringendo la sua morsa impietosa, obnubila la mente, paralizzandola di fronte ad un istinto di sopravvivenza che si spezza nell’agonia. Sono rari i casi, ma quando essa ti coglie, bisogna agire prontamente per limitare lo spettro d’azione corrosivo, predisponendo l’immediato antidoto all’infezione in corso, mediante una serrata analisi delle cause scatenanti, le quali sono tanto più forti, quanto più celate alla coscienza indagatrice. Una volta isolate le matrici dell’angoscia, che in genere è possibile ricondurre a dei motivi chiave, quali timore di ferirsi, di non poter tornare indietro, di perdere e perdersi, bisogna analizzare la singola matrice e scomporne le cause in parti non ulteriormente divisibili, ovvero non ulteriormente determinate da altri fattori – causa ultima – e, per ciascuna di esse, darne una spiegazione razionale che possa, con la sua articolazione e la sua argomentazione, sedurre anche le ragioni emotive. Certo il procedimento non è semplice, ma ne garantisco l’efficacia!
Procedendo dunque a passi lenti e ponderati sul lungomare di Portovenere, inietto in dose massiccia l’antidoto e mi avvio alla visita della penisola e alla ricerca delle cause prime. Abbarbicata al limite della terra ove un tempo sorgeva il tempio dedicato a Venere – donde il nome dell’intero insediamento – s’erge la chiesa di San Pietro, meravigliosamente decorata con il classico motivo delle fasce alternate e posta su dei blocchi di pietra scuri, nel cui mezzo scorrono, come fossero vasi sanguigni, delle venature rossastre. A fianco del tempio cattolico, vi è la grotta in cui Lord Byron diede prova delle sua capacità natatorie, traversando il golfo della Spezia sino a Lerici. Troppo affollata per riportarne un’immagine. Mi resta giusto la foto della parte di roccia scoscesa in cui, com’è ragionevole supporre, salvo qualche scalatore improvvisato, non è possibile trovare traccia di bipede umano, modello turista d’assalto. – Sì, lo ammetto, la morsa non cede, il ché mi rende la lingua più mordace. –
Poco distante dalla grotta, sulla strada volta al castello sovrastante, m’imbatto in una scultura. Mater Naturae il titolo originale dell’opera di Scorzelli. Pachamama il nome che mi sono permessa di attribuirle, per l’ampio ventre ed il seno abbondante, memoria arcaica di fertilità e protezione. Per quanto, a ben guardarne i lineamenti, la figura che emerge ricorda l’immagine materna dell’attesa, preoccupata ed insieme speranzosa, del ritorno del figliolo al casolare, in cui le braccia aperte riportano la buona disposizione, mentre le mani giocano con un lembo del vestito, come ad ingannare il tempo e insieme scacciarne l’apprensione. Ed io, posta di fronte allo sguardo bronzeo et lungimirante della Pachamama, invocando nel profondo la sua protezione, pian piano sciolgo il nodo alla gola ed allentata la morsa, lavo delicatamente l’animo, da tante afflizioni battuto.
Così, fra carruggi e capitoli (scalinate ripidissime che traversano l’abitato), la visita procede per il meglio e, posta di fronte a tanta beltà, le paure lentamente si sciolgono, cedendo il passo alle meraviglie del guardato. Quasi del tutto rimessa in forze, con una punta di felicità legata al miglioramento del tempo, dopo numerose scorribande nel borgo, decido infine che è l’ora di partire. Ma giunta al cospetto della poderosa Niña, chi vedo?!? Una poliziotta impettita in divisa inamidata, intenta a compilare la truce cartaccia dell’ammenda. Ahi sventura! A nulla son valse le mie parole per spiegare, giustificare, raccontare il perché del parcheggio creativo della Ninetta sotto ai pini di una via assolutamente pedonale. No. Infrazione! Divieto d’accesso! Disonore! Incalzava la sacerdotessa delle forze dell’ordine. E davvero il nostro non ha potuto in alcun modo arginare il flusso crescente dei rimproveri, e tantomeno dissuaderla della sostanziale necessità di salvaguardare il mezzo dall’incessante pioggia della giornata, anche perché posta di fronte ad una nutrita schiera di zelanti delatori del bar di fianco, i quali, con tanta premura, avevano chiamato la signorina in divisa al suo dovere, specificando, fra le numerose informazioni, anche l’orario d’arrivo dell’audace condottiero. Sentendomi un pollo spennato, caduto nella banale trappola del recupero crediti estivi della municipale di Portovenere – redditizia attività di raccolta fondi del Comune –, raccolgo armi e bagagli e scagliando maledizioni al vento, me ne ritorno al campo, decisa ad ubriacarmi impunemente dopo la faticosa giornata, partita con le nubi, svolta con l’angoscia e, non appena ripresa, castigata con la multa.
Diamine! Che almeno l’ebbrezza mi sia concessa!