«A un viaggiatore, con suo grande dispetto, si spezza per strada una ruota, ma questo spiacevole incidente gli procurerà le conoscenze e le relazioni più fortunate, che influiranno su tutta la sua vita. Il destino esaudisce i nostri desideri, ma a modo suo, per poterci dare qualcosa di superiore ai nostri stessi desideri.»
Johann Wolfgang von Goethe
E poi vi sono le giornate quiete, il cui fascino risiede nella capacità di elevare per differenza le altre contigue, dotate di accadimenti o vicissitudini che possiamo dire maggiori delle presenti. D’altro canto l’essere umano è fatto così: ha bisogno dell’esistenza di entrambe le dimensioni per apprezzarne i valori di ciascuna, gustarne il singolo sapore e in certo qual modo misurarle, perché nella sola differenza fra gli estremi risiede la conoscenza e la comprensione.
La giornata di oggi, inferiore se posta a confronto con le sorelle più audaci, si contraddistingue dunque per la solitudine recante – solo et pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi et lenti* – e per un imprevisto burrascoso e turbolento che mi ha sferzato il cuore.
Settimo giorno di viaggio | Venerdì 23 settembre 2011 | Sestri Levante – Varese Ligure
Abbarbicata sull’altura di Cogorno, immersa nelle sottili foglie d’ulivo, con lo sguardo dell’aquila scruto la valle sottostante cercando tracce di antiche gesta familiari o quantomeno di sassi ben assemblati a cui poter correttamente attribuire il nome di Basilica dei Fieschi. E come ben si addice ad un attento osservatore, prontamente li scovo in mezzo ad un nuvolo di tetti rossastri e ad un foschia preludio di futuri temporali. In effetti era difficile non trovarli! Di colore grigiastro fin sulla punta del campanile, la basilica si distingue dalle vicine costruzioni, col tono pacato della consapevolezza di chi sa il fatto suo. Fiutando l’aria e usufruendo appieno del senso dell’orientamento sviluppato in anni e anni di apprendistato scout, scarto ipotesi stradali errate e mi dirigo dritta alla meta avvistata.
Il borgo che m’accoglie ha dell’incredibile. Pare fissato in un altro tempo, immune dalle scorribande moderne di automobili e dal fracasso congestionato del traffico di lì poco distante. Se non fosse per una signora intenta ad offrire un piatto di libagioni ai gatti della zona, l’avrei detto completamente abbandonato.
Ma eccomi qua, di fronte alla Basilica dei Fieschi, intenta a rimirarne le forme gotiche, mentre mentalmente annoto quello che scoprirò poi essere il tratto distintivo dal sapore marinaresco delle chiese liguri: le facciate decorate con un motivo alternato di pietre chiare e scure. Nella fattispecie del caso qui presente, la decorazione è in marmo bianco e ardesia. Mi prendo il tempo di una visita accurata dentro e fuori le sue possenti mura e, leggendo da un libello scovato fra i banchi della chiesa scopro, insieme ai particolari architettonici, le vicende dei Fieschi, una delle quattro famiglie fra le più potenti della terra ligure, la cui dinastia s’è equamente ripartita fra papi, prelati e statisti. L’origine del nome pare derivi dalla parola “fisco”, forse per qualche zelante antenato esattore delle imposte governative. Penso alla dinastia Siae e prego per una caduta in disgrazia della casata.
Dopo aver rubato un grappolo d’uva lungo l’antica strada romana che costeggia la possente, mi rimetto in marcia alla volta di Varese Ligure, per la visita del suo borgo rotondo. Costruzione voluta dai Fieschi – il loro potere si estese dal XI secolo sino all’Ottocento – per proteggere il Passo delle Cento Croci dagli incalzanti fenomeni di brigantaggio, il borgo fu il risultato di una pianificazione urbana assai curiosa, tale da conferire alla piazza principale un’insolita forma ellittica. Ebbene è lì che sto andando!
Doppio più o meno rapidamente Prato di Reppia, con la Ninetta scalpitante per la pendenza – e siamo a soli 590 metri sul livello del mare –. Con giacca serrata e bavero rosso alzato a proteggere il viso dall’incessante abbassarsi della temperatura, decido per una sosta al Passo della Biscia, a 885 m.s.l.m.. I monti che lo racchiudono si stagliano spogli di boschi. Hanno un aspetto brullo, contrastato unicamente dal verde dei prati tenacemente aggrappati al dorso. Mi vengono in mente i muschi ed i licheni studiati un tempo alla scuola elementare ed i bellissimi disegni dell’atlante geografico, in cui le fasce della vegetazione dalla savana giungevano, a colpi di onde o colori, sino alla tundra e alla taiga. Ah quali tempi memorabili quelli delle regioni d’Italia immortalate in minuziosi disegni sulla copertina dei quaderni Pigna, che con amorevole pazienza ridisegnavo ogni estate sulla carta velina!
Ma torniamo a noi e alla nostra strada Provinciale 57, di curve e pendenze disseminata. Dopo circa un’ora e mezza di marcia giungo a Varese Ligure e lì mi concedo un pranzo principesco a base di porcini crudi, caciotta e marmellata di mele e lardo su crostino caldo! Consapevole del pericoloso torpore a cui una certa abbondanza di pietanze fa seguito, corono il lauto pasto con un salvifico quanto propedeutico goccetto di grappa e, di spirito rinfrancato, mi avvio all’esplorazione. Il borgo, effettivamente ellittico, è di una precisione millimetrica e gli edifici che ne delimitano l’ordinato perimetro, sono adibiti al commercio e a laboratori artigianali.
Vagabondando a cuor leggero per le sue vie raggiungo la bottega di un falegname di segatura e morsetti disseminata, ed all’interno vi trovo un uomo dai capelli radi sulla fronte e con un paio di occhiali spessi e neri. Porta una camicia a maniche corte azzurra ed il suo nome è Pietro. Avvolta alla mano destra, una fettuccia di cuoio ne protegge il palmo dalle schegge di legno.
Ora io ne avevo sentito parlare, ma è ben altra cosa tenerne uno fra le mani, consapevole dei secoli di storia su di esso appoggiati. In effetti, da quando è andato in pensione, l’occupazione principale di Pietro consiste nella realizzazione delle matrici di croxetti, stampi in legno per la pasta, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, ed il cui ricordo rischia di svanire con l’ultima generazione di varesini. E dunque Pietro, posto di fronte all’ineluttabilità del tempo, con ferrea determinazione ha deciso di salvare i croxetti dall’oblio, riproducendo incessantemente le varie matrici, a partire da alcuni cimeli conservati con cura dalla sua famiglia. “Finché avrò forza questo farò”. E noi ne siamo particolarmente lieti.
Riparto da Varese Ligure con l’immagine di Pietro il vecchio intento a scavare il legno per incidervi un segno, che a sua volta possa incidersi nella memoria. Con in tasca un pezzo della sua tenace volontà, andavo col naso all’in sù, già intenta a godere del profumo dei boschi, quando un imprevisto burrascoso e turbolento strappa il velo della spensieratezza, per lasciarmi, allibita, in uno stato di coscienza vacillante.
Lungo il rettilineo della Provinciale 523 – e tengo a sottolineare l’unico rettilineo –, appena varcata la soglia di una vecchia galleria dalle pareti scrostate e di crepe rigata, improvvisamente, senza un vagito, né un segno premonitore, la ruota posteriore della Niña si blocca, ed io, neanche capendo come e perché, con piglio da funambolo mi ritrovo a mantenere l’equilibrio verticale del mezzo a colpi di adrenalina e forza muscolare, mentre la Poderosa scivola per non so quanti metri con la ruota fissa ed il motore urlante. L’attrito grazie al cielo rallenta la velocità e, raggiunta una soglia accettabile, cauta metto mano al freno, per bloccarne definitivamente la pericolosa marcia. Uscita a passo d’uomo dall’arancione antro del condotto, mi accosto al ciglio della strada e, con il motore del cuore ancora oltre i mille giri al secondo, monto il cavalletto e scendo dal mio destriero impazzito. “Ninetta ma cosa mi combini?”. La guardo perplessa, ne studio i meccanismi visibili, tasto con mano la ruota incriminata, ma nulla. Tutto appare in ordine. Solo il calore sprigionato dai gusci del minuto centauro reca il segno dell’accaduto. Con ancora il timore addosso, mi rimetto guardinga in sella e, con la velocità di una nonna in babbucce che dalla cucina va a sedersi in salotto, riprendo il cammino verso Sestri Levante, benedicendo a più riprese la stella che di lassù mi ha guardato a protetto.
Al primo distributore di benzina, mi fermo e, con fare ancora stralunato, spiego la drammatica vicenda all’omino, domandandogli incalzante cosa diavolo possa essere successo. “Signorina le si è ingrippato il motore” mi dice, come se fosse cosa di tutti i giorni. Incredula, tanto più perché posta in uno stato di completa ignoranza dei termini tecnici, indago sul significato della voce “ingrippato”. “Ma certo, è mancato l’afflusso di olio al motore, e questo ha causato il blocco della ruota”. “Mi scusi, ma ho il miscelatore automatico”. “Ah!”. “Beh, sa cosa facciamo? Mettiamo un pò di olio nel serbatoio della benzina e vedrà che, tolto un pò di fumo, la ruota non si bloccherà più”.
Destino vuole che proprio attaccato al distributore c’è un meccanico di velocipedi a due ruote, e ancor più felice destino vuole che il proprietario, un vecchietto nerboruto, in vita sua di mestiere ha fatto il collaudatore di Vespe Piaggio. Corredato dei più minuziosi dettagli informativi, sottopongo alla sua attenzione il problema e, a discapito della resistenza manifestata dal benzinaio, egli insiste per aprire i gusci della Ninetta, “perché sa, è un fatto strano un blocco così, senza preavviso”. Da buon intenditore gli è bastato un attimo per capire e, indicandomi con mano la causa – il colpevole era uno, piccolo e sottile –, si accinge a prendere la cassa degli attrezzi. In pratica l’incriminato tubicino dell’olio, ignorando la sua unica commessa di far affluire il liquido necessario al funzionamento del motore, si è letteralmente staccato dal perno, e, standosene impunemente a mezz’aria, cercava di argomentare qualcosa in merito ad una pausa – sia chiaro ingiustificata – dal duro lavoro. Lo esamino stizzita. Guarda te se la mia vita dev’essere attaccata ad un insolente quanto minuscolo pezzetto di gomma! Insisto con il meccanico per infilargli una fascetta di metallo a garanzia del suo corretto e inamovibile posizionamento e, baciato sulla fronte il salvatore, accendo i motori. Avvolta da una fitta nube di fumo grigiastro – la quale devo ammettere mi da l’aspetto di un avventuriero scaltro ed insieme folle – sollevata ma diffidente nei confronti dell’indomito destriero, parto con moto rombante alla volta del campo, felice del pericolo scampato.