Sesto giorno di viaggio | Giovedì 22 settembre 2011 | Rapallo – Sestri Levante
Un diario di bordo che si rispetti dovrebbe riportare, con tanta accuratezza quanta dovizia di particolari, tutti gli accadimenti che hanno impressionato la memoria del viandante, con la stessa precisione con la quale una pellicola, sollecitata dalla luce, fissa in maniera duratura un’immagine. Ebbene, a discapito di tale sanissima usanza, oggi piegherò il cannocchiale, obliando consapevolmente il resoconto puntuale dello spostamento del campo, della piacevolissima sosta al mercato di Chiavari, delle elucubrazioni sui vecchi arzilli del paese intenti a discorrere animatamente sulle panchine affacciate a piazza Mazzini, per lasciare posto all’immagine principale che si è depositata nella mente, come al tempo la vista dalla finestra a Le Gras si è depositata per sempre nella memoria storica del mondo.
Va fatta un’ulteriore premessa. Il nostro eroe ha un fiuto eccezionale per l’architettura di pregio.
Dunque oggi cominciamo da qui. Visita alla città di Sestri Levante. Avevo appena attraversato piazza Matteotti e sbirciato sul versante interno della baia, quando l’occhio attento e vigile intravede una stradina inerpicarsi silenziosa fra i carruggi vivaci del paese. Senza indugio mi appresto a percorrerla, in tutta la sua pendenza, ben sapendo che a certe fatiche, il destino riserva onori e magnificenze panoramiche, mio piatto d’elezione.
Giunta a metà della salita, in uno slargo a sinistra, incontro i ruderi dell’oratorio di Santa Caterina circondati da un tenero manto d’erbetta brillante. In effetti han ben ragione a parlare di ruderi, poiché paiono i vagiti pulsanti di qualche scavo archeologico d’altri secoli. Ma non è così. E’ stato un infelice omaggio della seconda guerra mondiale – i bombardamenti aerei del ’43 per essere precisi – a ridurne drasticamente il volume complessivo, lasciandole intatto il solo arco della cappella absidale. Ad ogni modo, i resti della chiesetta segnano il passo nella giusta direzione, e a me tanto basta. Di fatti, poco più avanti, la chiesa di San Nicolò, con solido aspetto romanico e di asimmetriche pietre composta, non tradisce l’attesa del bello, appagando pienamente l’amore per il massiccio che l’architettura del X secolo concede con abbondanza materna.
Dopo averla a lungo rimirata in ciascun suo lato, ed averne apprezzato la sobria articolazione degli elementi, quasi non faccio a tempo a completarne la circumnavigazione che lo sguardo lesto cade su un castello di lì poco più avanti, e sul primo casolare, completamente avviluppato d’edera. Cauta mi avvicino, ha tutto l’aspetto di un’antica abitazione padronale oggi adibita al benessere di pochi. Giunta alla magnificente terrazza volta verso la città, mi fermo a rimirare la vegetazione florida che ne abbraccia torri, balaustre e porticati. Ah quali agavi sontuose han posto qui radici!
Con mente vivace mi abbandono per un istante alla piacevolezza della flora nel mentre stende le sue braccia verdi al sole. Ma è giusto il tempo di un respiro, poiché la meta stabilita è ben altra, ed io mi appresto a scovarne l’ingresso.
Di stradina in stradina, di atri in scalinate, senza esito la cerco affannosamente. Strano, eppure dovrebbe partire da qui! Verifico nuovamente le indicazione fornite sulla mia personalissima bibbia verde, e di fatto ottengo unicamente la conferma del punto di partenza, ma non del passo successivo. Stavo già sgranando piani diabolici su improbabili arrampicate, quando intravedo un sommelier pronto a consumare la sua pausa sigaretta. Come un’aquila in picchiata mi avvento sulla preda per tentare di acquisire ulteriori dettagli sul passaggio, evidentemente segreto. L’intenditore di vini, è anche un intenditore dell’area – o per lo meno, questo m’ha dato a vedere – e, debitamente interrogato, con mano ferma mi indica una strada non ancora battuta, la cui fine non è data a vedere.
Tento, provo, ma per quanto ne abbia con attenzione studiato il percorso ed anche le sue due varianti, continuo ad imbattermi in cancelli chiusi ed archi sbarrati, con addosso il più orribile dei cartelli: “Proprietà privata”. Ma è mai possibile?! Come può essere privato un così bel parco, alla cui ombra degl’alberi secolari, anche il più impenitente essere umano trarrebbe un beneficio interiore? Orazioni a parte, che non è il momento di star sul posto a sbraitare, mi resta da risolvere la sconveniente faccenda della porta chiusa. Ma come fare? Scavalcare non si riesce, e pensare di fermarmi a pranzo è fatto assolutamente da escludere. Per principio.
Decisa a visitare il parco a tutti i costi, mi sistemo alla meglio i capelli disordinati e tento la via per direttissima: presentarmi al cancello maggiore e suonare il campanello, non prima però d’aver messo a punto un nutrito elenco di seduttive argomentazioni circa la rettitudine del desiderio che anima la mia richiesta. E guarda la vita! Come spesso accade in situazioni spinte da innocenti intenti, non ho nemmeno dovuto versar fiumi di parole, perché qualcheduno là dentro, senza fare domande, mi ha semplicemente aperto la porta, permettendomi così di accedere al giardino privato dell’Eden, in cui, da qualche parte nascosta, per certo si trova la Torre Marconi.
Con rinnovato slancio comincio il mio percorso d’esplorazione che si snoda prima fra ampi viali e poi lungo una strada – finalmente l’ho trovata! – stretta e lineare, il cui sentiero, scavato a metà della parete rocciosa, è da un lato protetto da un parapetto in ferro. Passo dopo passo costeggio l’intera penisola, fermandomi qua e là a guardare la vastità del mare perdersi all’orizzonte, col desiderio vivo di immergermi nel suo azzurro intenso che, incorniciato da pittosfori giganteschi, riesco ad intravedere fra i rami torti e fitti. Un pacifico silenzio accompagna la passeggiata, interrotto di quando in quando dal garrito di un gabbiano o dalla risacca delle onde le quali, con imperturbabile moto, vanno e vengono dagli scogli, lasciandoli lì, impietriti, come un pretendente appenda sedotto e già abbandonato che se ne resta stordito ed incredulo di fronte al flusso femmineo e fulmineo della donna appena svanita.
Ebbene signori, al di là delle seducenti argomentazioni turistiche circa la beltà delle due baie di Sestri Levante, l’una del silenzio e l’altra delle favole, ciò che debbo dirvi è che, a conti fatti e con un benché minimo senso del buono – inteso nell’accezione greca del termine –, è questa la vera baia del silenzio: un luogo remoto e sperduto nel tempo ove, se solo lo desideri, puoi sentire il vento cantare.