Terzo giorno di viaggio | Lunedì 19 settembre 2011 | Mantova – Rivergaro
Apro un occhio ed il verde pastello del fondo della stanza mi fa contrarre l’ancora addormentato cristallino. Mi rifugio per un istante sotto il caldo delle coperte, per raccogliere i sogni di una nottata agitata e pianificare gli spostamenti della giornata. Una voce entusiasta grida fuori coro: “Bobbio!”, ma io la zittisco, proponendo un insindacabile atteggiamento più cauto. È l’alba e nel cortile, delicatamente appoggiati al manto d’erba, dormono tranquilli gl’ultimi resti della nottata. La rugiada fa chinare il capo ai fili d’erba i quali, come eleganti damigelle e soldati di leva nell’ora del saluto, si scambiano sontuosi inchini prima della partenza, mentre la nebbia, con malcelata reticenza, adduce scuse poco plausibili circa l’impossibilità di separarsi dal tanto tenero quanto fraterno abbraccio alla terra.
Il silenzio avvolge la campagna, ed io inizio a prepararmi per un’altra sfida. Canottiera saldamente ancorata dentro i pantaloni e doppio strato di sopravvivenza. Non sia mai si metta a piovere anche oggi. Esco sul porticato e respiro a pieni polmoni la quiete del giorno che sta per levarsi. Vi è un istante, in bilico fra il sonno e la veglia, nel sottile, rapidissimo passaggio dalla notte al giorno, in cui il mondo pare come sospeso, immobile. È il luogo dove i sogni prendono la consistenza di possibilità, e dove anche il più improbabile pensiero acquista forme e sembianze reali. Bevo a piene mani il vapore acqueo di quell’istante e m’incammino verso la colazione.
L’itinerario di oggi prevede, nel piano base, 108 km per arrivare a Piacenza, passando per Cremona, poi, abbandonata la pianura, sarà la Statale 45 dell’Appennino Piacentino a condurmi alla volta dell’agognata Bobbio, la quale, con il suo Ponte Gobbo, rappresenta, assieme a quello della Ninetta, il motore primo della giornata.
Tutto è pronto, saluto cordialmente la locanda che nel buio di ieri sera mi ha dato riparo, e salgo in sella alla Poderosa. “Verso l’infinito ed oltre!” sento esultare la vocina. E stavolta glielo concedo. Il cielo è ancora grigio, ma i campi stesi a destra e a sinistra della strada sono di una rara bellezza, che solo la tarda stagione concede, mantenendo ancora vivo il verde dell’erba, ma contrapponendo ad esso, in un onesto equilibrio cromatico, le tinte ocra dei terreni che si apprestano al meritato riposo.
Per un istante, meraviglioso, il sole viene a baciarmi ed io corro felice attraverso sogni e pensieri, slanci e considerazioni sull’andamento dell’anno in corso. Ecco, quello è stato l’unico raggio di sole, poi più nulla. Ad un certo punto ho tristemente notato che il cielo azzurro è rimasto nello specchietto retrovisore, mentre la Ninetta ed io ci addentriamo, riluttanti, nella nube bassa laggiù in fondo, dritto dritto davanti a noi. Ora, a guardarle un po’, le riconosci le nuvole. Magari non tutte, ma quelle che ti cambiano la giornata sì. Ci sono gli sbuffi di panna, altrimenti detti cumuli, graziosi addensamenti di minutissime goccioline d’acqua, con i quali puoi passare interi pomeriggi a giocare, disegnando le più incredibili forme. Poi ci sono i nembostrati. E sono una brutta faccenda. Per nulla inclini al dialogo, l’unico atteggiamento da avere con loro è mantenere la calma ed elegantemente svignarsela, cercando riparo davanti al camino, possibilmente con un buon libro al seguito. Orbene, qui con noi non c’è né riparo né camino e dei libri portati, corro pure il rischio di bagnarli!
Ad ogni modo mi faccio coraggio e decido di sfidarli, quei nembostrati. Basterà attraversarli mi dico. Sì certo, qualche goccia non me la leva nessuno, ma in fondo, non avranno mica un’estensione insostenibile! Avevo da poco passato Cremona, quando l’acqua, unita al suo infido alleato, il freddo, mi costringono ad una prima sosta, per ripristinare la temperatura della mani. Mannaggia a me ché nell’ultima lista di compleanno non ho messo i guantini da pilota! Al chilometro quattordicimila ottocento ottantuno passo Piacenza ed imbocco la Statale 45 che mi porterà a Bobbio. Continua a piovere e, nei rari momenti di tregua, mi asciugo il cavallo dei pantaloni al vento.
Il paesaggio è meraviglioso, di vette e colline verdi costellato, nei cui tratti, se ben ti concentri, puoi vedere fauni e con loro parte della popolazione mitologica che ha abitato l’infanzia della società occidentale. Respiro l’ultimo gemito della poesia prima che l’orizzonte scuro ne rompa il vetro cristallino.
Con tenacia inizio ad inerpicarmi sull’Appennino, ma la pioggia mi costringe a numerose pause e rallentamenti. Non sento più le mani dal freddo ed anche ora che scrivo, dopo aver trovato ristoro alla locanda Miranti, aver bevuto un the caldo ed essermi fatta una doccia bollente, ancora adesso non le sento. Ergo: i viaggi del vespino vanno fatti con un clima CALDO.
Riporto qui la nota di un passaggio nel paese di Rivergaro, grazioso abitato tutto ciottoli e pietra, in cui i ragazzini, di ritorno da scuola, correvano lungo le vie del borgo, con il ritmo loro proprio irregolare, chi andando incontro ai nonni, che pazienti li attendevano alla fermata dello scuolabus tutti intabarrati, chi prendendo la rincorsa e, valutando attentamente il punto in cui la profondità era maggiore, cercavano con tutte le loro forze di centrare la splendida pozzanghera, la quale rifletteva il campanile giallastro della chiesa e con esso, la dolce inconsapevole libertà dell’inconsistenza del tempo.
La locanda si trova a 4 chilometri da Rivergaro, in un luogo vicino a Bassano Negro (PC). Soprassiedo in questa sede alla penosa ricerca di rifugio che mi ha portato invano al di qua e al dì là del fiume Trebbia, con la mascella serrata dal freddo e la speranza spezzata ad ogni secondo tornante. Dico solamente che ad un certo punto, quando lo sconforto mi appannava gli occhiali, ho trovato una minuscola, salvifica freccia, la quale mi ha condotto sino a qui.
Dunque dicevo, sì, dopo aver ripreso conoscenza del mio corpicino, mi vesto di tutto punto e decido per una passeggiata. Il sole fa capolino fra le nuvole e la tanta pioggia di questi giorni mi regala degli scorci straordinari. L’orizzonte è limpido e le montagne si stagliano silenziose. Cammino verso una chiesetta semi abbandonata e strada facendo valli e campi mi riempiono gl’occhi. Prati verdi si alternano ad appezzamenti d’un nero marrone, laddove la terra è stata rivoltata ed ora è pronta per l’inverno.
La Trebbia si dipana fra le vallate ed io, io mi sento così bene. Regalo un ricordo a Jael e mangio un fico dolcissimo insieme a mia madre. Infine un campo di pannocchie, ormai privo dello slancio verticale dei suoi steli che giacciono a terra arsi dal sole, mi regala la quiete dei miei trent’anni. Non importa se non so bene cosa farò da grande, perché qui ed ora mi manca il senso di tanto affannarsi e, nel lusso di potermelo permettere, mi prendo un tempo, quello della natura che, con i suoi ardori e le sue contrazioni, non conosce dubbi, né remore.