Tredicesimo giorno di viaggio | Giovedì 29 settembre 2011 | Levanto – Jesolo
Orbene miei cari, oggi ci attende una giornata eroica!!
Sveglia all’alba, corroborata da una tazza di caffè fumante, elemento quanto mai necessario per tirare giù dal letto le ultime cellule cerebrali sopite. Verificata l’effettiva attivazione di arti e membra, comincio i preparativi in vista dell’impresa epica che m’attende: traversata orizzontale dell’Italia e vertiginosa risalita del nord-est per giungere, in serata, a Jesolo, Fortezza del Capitano e dimora della mia amata.
Ore 10.30 | La partenza
Armi e bagagli sono pronti, Ninetta e pilota pure e, dopo aver verificato la corretta carburazione del mio prode scudiero, mediante degustazione dei fragranti fumi emessi dal tubo di scarico, gli carico in groppa i bagagli, issando sul sacco posteriore la bandiera dei pirati – questo a garanzia di un leale atteggiamento da parte degli autoveicoli retrostanti – e, avvolta dalla consueta nube grigiastra, parto con moto rombante!
Così, col sole alto ed il cielo terso, da Levanto mi ricongiungo alla spendida Aurelia e scendo sino al margine de La Spezia, per risalire, a dorso del minuto centauro, alla volta di Aulla. Di lì imbocco la Strada Statale 63 ed inizio una vera e propria arrampicata verso il Passo del Cerreto, a 1.261 metri s.l.m., con in mente la canzone di Gaber “Il suo nome era Cerutti Gino, ma lo chiamavan drago”.
Oh, non c’è stato verso di levarmela dalla testa! E ve lo dico adesso, dopo due ore strazianti di loop continuo, durante il quale ho tentato più volte di cambiare disco, inutilmente. Perché non solo il buon Gaber e l’amico Gino avevano preso il sopravvento sull’intera playlist mentale, ma dell’unica traccia disponibile, ne ricordavo solo ed unicamente il ritornello!
Ore 13.20 | Passo del Cerreto
Diatribe musicali a parte, cammin facendo mi rendo conto dell’infinita, assurda, desolazione della strada, in cui persino gl’insetti se ne stavano in disparte e di essere umano non v’era traccia. Fatto strano e tutt’ora insoluto, per il quale, in un punto non ben identificato fra Cerreto dell’Alpi e Castelnovo ne’ Monti, mi sono imbattuta in un’enorme rotonda – sarà stata grande quanto mezzo campo di calcio – con intorno nessuno. Nessuno! Dico, neanche un po’ di rassicurante spazzatura a margine del guard rail. No, c’ero solo io e quell’immensa distesa di asfalto sospesa nel vuoto. Che sia capitata nella bassissima stagione turistica? Che il flusso migratorio del turista d’oltralpe sia bruscamente terminato? Non saprei, ma resta comunque un mistero la presenza di un solo segmento semi-autostradale, preceduto e seguito da snelle stradine di montagna, nella più completa assenza di fruitori.
Ore 15.00 | Reggio Emilia
Dopo la scalata del Cerreto, la discesa conseguente mi prende gran parte dell’energia, ma non per le attese curve vertiginose – riguardo le quali la salita dell’altro versante mi aveva certamente ben preparato – bensì per un’inaspettata serie di gallerie bislunghe. Ora, già di norma soffro a farle in auto, figuriamoci su due ruote! Sopravvissuta al senso di claustrofobia, reso maggiore dalla coscienza dell’assoluta mancanza di alternativa al suo attraversamento, al chilometro quindicimila cinquecento settanta cinque giungo a Reggio Emilia e, riconquistata la tranquilla serenità del piano orizzontale a cielo aperto, imbocco la Statale numero 9 (già via Emilia), convinta del fatto che su una strada così dritta e pianeggiante, potrò finalmente rilassare i muscoli.
Ahi ignara! Non faccio neanche in tempo a finire di pronunciare la ics di relax, quando, con mio personale et profondissimo sdegno, mi vedo costretta a notare la triste somiglianza con la sorella d’elezione, l’infelice Romea, la quale si dipana lungo la dorsale adriatica, che da Mestre porta a Ravenna. E sia chiaro signori: questa affinità non riguarda affatto l’ormai perdute origini romane e medievali delle sorelle Cisalpine, quanto piuttosto il tasso alcolemico di inquinamento, smog e sporcizia in esse presenti, tale da causare una subitanea sbronza di puro fetore malamente distillato, e far così schizzare il tanfometro (strumento per il calcolo della concentrazione di puzza nelle narici) ben oltre i limiti del decreto legislativo di Pubblica Decenza previsto dal Codice Morale della Strada (0,5 g/m³ ndr.).
Ore 18.15 | Ferrara
C’è di buono che la rabbia ti fa correre. Ed io corro, corro come una forsennata pur di scampare all’orribile distesa di camion e di automobili isteriche in preda alla congestione del traffico, pregando dentro di me perché finisca presto il petrolio. Eh sì, diciamocela pure tutta: fino a quando non sarà esaurita l’ultima gocciolina d’oro nero, non vi sarà motivazione necessaria e sufficiente a costringere il genere umano ad un cambio radicale di prospettiva e, nella fattispecie qui presente, di fonte energetica.
Ad ogni modo, col motore aggiuntivo dell’indignazione, percorro a zig zag la terra fra Modena e Ferrara, giungendo infine a quest’ultima un po’ prima del tramonto e lì, nel più immancabile dei bar sport di periferia, mi concedo una sacrosanta tappa di sostentamento. Perché dovete sapere che il pilota, essendosi messo in testa di arrivare – in barba alle più elementari leggi di resistenza fisica – fino a Jesolo, non si concede neanche le tappe sigaretta previste dal Regolamento del Buon Viandante, e questo nonostante le proteste corali da parte dei muscoli delle gambe, i quali, a causa della postura immobile, coadiuvata della costante, soporifera vibrazione del motore, viaggiano in stato di perenne torpore posto al limite del sonno letargico.
Ore 20.30 | Marghera
Siano benedetti i tuoi fumi tossici e lo squallido tepore urbano che da essi scaturisce! Nel mio non avrei mai creduto di poterlo pensare, eppure, non solo lo penso, ma addirittura lo grido a gran voce! È scioccante, mi rendo conto, ma permettetemi di spiegarvi.
Dopo l’agognata tappa a Ferrara, ho ripreso la marcia in direzione Rovigo e Monselice. Da lì, assolutamente mio malgrado, mi sono fatta forza ed ho imboccato quella stramaledetta di Romea, la quale – bisogna dirlo –, rispetto alla caotica via Emilia di cui sopra, è di gran lunga maggiormente gremita di camion e le corsie di marcia sono quel che sono: piccole. Così mi sono ritrovata a correrci sopra, senza voltarmi indietro, col panico che giungeva maestoso ad ogni sorpasso di camion, il quale, in virtù di un fisico e dannatamente enorme spostamento d’aria causato dall’imponente mole, mi faceva svolazzare qua e là, e ancor più spesso verso il margine della carreggiata – e sappiate bene, dopo di quella c’è un fosso – col sole ormai tramontato ed un freddo pungente che m’intirizziva le dita, costringendomi ad uno sforzo di proporzioni inaudite per tenere fissa la mano sull’acceleratore, e tutto questo senza nemmeno potermi fermare, perché non ci sono posti dove fermarsi! Un incubo ad occhi aperti. Capirete bene il perché della mia affermazione iniziale e del moto di giubilo con il quale, appena varcata la coltre malsana della città, mi sono lietamente fermata fra uno spacciatore ed una prostituta, a scaldarmi le mani sul motore della Ninetta, come fossi teneramente a casa, davanti al camino.
Ore 22.32 | Jesolo
Sì, ce l’ho fatta! Sono arrivata a Jesolo, stanca e stordita per tutto ciò mi è passato davanti agl’occhi in un sol giorno, per i chilometri percorsi, uno ad uno, per il freddo che nelle ultime quattro ore di marcia ha messo a dura prova la mia resistenza. Ma in fondo al cuore, sono felice. Dell’abbraccio che mi ha travolto – come il migliore degli eroi quando torna a casa dopo una battaglia –, delle avventure vissute, alcune rocambolesche, altre silenziose, delle magnifiche escursioni fatte sul dorso delle Cinque Terre, del sudore della fronte, dei piccoli regali a fine giornata – un bagno in una baia, una cena di pesce, una doccia calda dopo la pioggia – del sole sulla pelle che mi ha donato una tintarella a mò di guantino sulle mani e l’aspetto di un opossum per via degl’occhiali, della libertà di poter gestire il mio tempo, e di quel brivido lungo la schiena, quando dall’Aurelia ho guardato il mare. Come fosse la prima volta.