No, non è possibile. Non può essere! continuava a ripetere tra l’incredulo e lo sbigottito, mentre invano tentava di divincolarsi da un’invisibile morsa, premente e lacerante. Le gambe giacevano immobili, come se sopra vi fosse appoggiato un enorme macigno di pietra, ma non fredda, tiepida. Seduto al margine del letto, contemplò la scena resa opaca dalla polvere agitata nel movimento compulsivo del corpo, senza però riuscire a vedere esattamente i limiti della stanza in cui si trovava. Tentò di alzarsi, ma spinto da una forza uguale e contraria alla sua, ricadde pesantemente all’indietro. Con una lentezza obbligata da una sorta di greve indolenza, si guardò attorno per delineare, attraverso gli oggetti vicini, la natura sfuggevole del luogo, nell’intento di fissare sulla retina, una sequenza di impulsi elettrici tali da permettere l’acquisizione di alcune informazioni di base.
Ruotando lievemente il capo da sinistra verso destra, poco distante dalla sua gamba, vide una macchia, d’un marrone scuro, segnata in più punti da fasce bianco sporco tracciate grossolanamente da delle ditate. Gl’occhi facevano fatica a metterne a fuoco la consistenza, cosicché allungò una mano, captando con i polpastrelli indolenziti l’oggetto ignoto. Aveva una superficie ruvida, di legno, in cui solo alcuni tratti parevano più lisci, come se toccati nel tempo da moltissime mani, tanto da livellarne la superficie. La percorse in tutta la sua lunghezza – non misurava più di due spanne – ed aveva i bordi tondeggianti. Al centro vi era una piccola sporgenza, una specie di parallelepipedo dai lati affilati ma non troppo, e sotto di essa si apriva a mezza luna una fessura dall’interno cavo. In uno sforzo al limite delle sue possibilità fisiche, contrasse gl’occhi, comandando i muscoli e costringendoli violentemente alla messa a fuoco di quanto sin ora aveva tastato. – Ubi maior minor cessat. – E questi, posti di fronte ad un’implacabile forza di volontà maggiore della loro resistenza, si piegarono, facendo correttamente convergere la curva del cristallino sulla macchia marrone. Con certo stupore comprese la natura dell’oggetto dinanzi.
Era una maschera, una di quelle africane utilizzate nel rito della caccia, i cui tratti rudi e grezzi hanno la proprietà taumaturgica di proteggere l’uomo dalla furia delle belve. Sebbene spossato dall’acuto sforzo di focalizzazione, profittò della buona disposizione del bulbo oculare, per raccogliere ulteriori dati sensibili su quanto tutt’attorno giaceva silente. Con moto lento posò lo sguardo poco più in là dal primo ritrovamento e, con sconcerto, vide un’altra maschera, rivolta a capo in giù, dall’interno convesso e di tinta chiara, appoggiata a sua volta su di un’altra, color amaranto, più piccola però. Con ansia dettata dall’incapacità di comprendere, si sporse dal letto e con fragoroso boato, sentì spezzarsi il fiato in gola. Dai piedi del letto ai suoi piedi plumbei e tumefatti si stendeva una selva di maschere, di genere e foggia diverse, alcune dai colori brillanti, altre lisce e perfette, altre ancora percorse da fratture e tenute assieme da pezzetti di fil di ferro arrugginito. Erano impolverate e vecchie, o di ceramica appena cotta, avevano un espressione truce, beffarda, ed il loro volume poteva variare dal consistente al filiforme. Vi erano di note e di sconosciute, di sacre e profane, e l’unica cosa certa in quel marasma impossibile di fattezze umane e animali ammonticchiato sul pavimento era la loro indicibile moltitudine. Con crescente angoscia, a questo punto senza muovere volontariamente un muscolo, alzò lo sguardo alla parete di fronte.
Appoggiato ad una trave verticale posta a non più di tre metri di distanza, incastonato in una cornice di legno decorata con motivi floreali, stava un vecchio specchio in mercurio, traversato da numerose venature e ricoperto da un leggero strato di polvere. Al centro dello specchio la sua immagine, china, come raggomitolata e torta da un dolore lancinante. Le vesti riflesse apparivano sporche e sgualcite e le mani, allungate ai fianchi, stringevano con involontaria forza il ruvido materasso sottostante, in una crescente, lucida presa di coscienza di ciò che di più grave lo specchio riportava. Di poco sopra alle spalle nude e livide, ad un passo dalle clavicole incavate, proprio sulla sommità del collo laddove Iddio ha posto la parte razionale dell’uomo, c’era una maschera, lucida e sottile, perfettamente adagiata al volto. Con moto rapido e fulmineo drizzò il braccio e, sfregando sotto la mascella con mano tremante, grattò compulsivamente la pelle sino a sollevarne un piccolo lembo. E da lì, sfregando di nuovo, e con più impeto, e con più furore, tirando e graffiandosi il viso, con una mano poi con due, riuscì a liberare l’intera guancia destra e parte del mento, facendo attenzione a ché l’appena rimosso impiastro appiccicoso non si riattaccasse nuovamente. Con le mani sudice, le gambe bloccate e la schiena madida di sudore, ebbro di una determinazione al limite del conato, pezzo dopo pezzo strappò l’immane membrana che oscurava il volto ed il respiro, scagliandone il molle involucro contro la parete.
Ancora ansimante per lo sforzo ritirò il braccio teso e rimase inerme di fronte all’incomprensibile realtà dei fatti. Non è possibile, non è vero! urlava dentro di sé. E volendo trovare l’errore cognitivo che impietoso lo frustrava, guardò di nuovo l’immagine riflessa, cercando in essa una qualche prova empirica superiore allo stato di confusione sensoriale in cui verteva. Ma interrogato lo specchio, non vide i consolatori lineamenti del suo volto nel modo in cui li conosceva e ricordava perfettamente. No! A discapito della profusa speranza, in un’assurda quanto efferata reiterazione degli elementi, sopra le spalle magre ed incavate vide un’altra maschera, straziante e burlesca, dal naso curvo e l’aspetto torvo. Morso da un’angoscia asfissiante, col senno in fiamme e la gola secca, levò le mani e con maggior veemenza trasse l’orrenda effige dal volto. Ma appena tolta, ciò che sotto vi trovò lo atterrì con tale sordida violenza da torcerne le budella. Era un’altra maschera. Un’altra! Con gesto compulsivo ed agonizzante, reso sordo dalla rimbombante eco del battito cardiaco, continuò a togliere, una dopo l’altra, senza tregua né fiato, infinite crudeli maschere, le quali giacevano sovra al viso, in uno stato di agghiacciante moto perpetuo.
Si svegliò di soprassalto, toccandosi animatamente il volto per verificarne l’esistenza. Sì, c’era, ed era come doveva essere. Barba incolta e rada, naso affilato e sopracciglia disordinate. Dalla flebile luce che penetrava attraverso le finestre socchiuse dedusse con precisione impeccabile l’ora esatta. Erano le 4.01 – come poi confermò l’orologio appoggiato al comodino – e l’alba stentava a farsi largo nel cielo stellato. Un sapore amaro gli riempiva la bocca, mentre il corpo indolenzito dal sonno tentava di sottrarsi dal freddo pungente della stanza. Si mise seduto sul letto, le lenzuola di poco gli coprivano le gambe, e nel gesto di alzarsi si bloccò, ostacolato da una forza uguale e contraria alla sua. I resti palpitanti del sogno lo presero a tradimento, vertiginosi e lividi, riportandolo con la memoria al punto esatto in cui li aveva interrotti bruscamente. Ah quale orrore! Davanti ad uno specchio impolverato, in uno spazio angusto e desolato, sopra una montagna di maschere variopinte, c’era lui, col corpo semi paralizzato e contratto nell’atto stesso di cavarsi di dosso, una dopo l’altra, infinite terribili maschere.
Fece un grande respiro pacificatore e decise di passarle in rassegna una ad una, ricordandone i tratti e le fattezze, nel desiderio concreto ed insieme razionale di attribuire loro un possibile significato onirico, tale da scomporre l’assurdo in elementi decifrabili. Gli era rimasta la sensazione che tutto ciò avesse a che fare con la camaleontica necessità di porre degli strati intermedi fra il sé e l’altro, fra l’individuo compiuto e le richieste sociali entro le quali lo stesso si muove, quand’ecco d’improvviso, ad un passo da una plausibile verità, un pensiero fulmineo lo fece vacillare. Pervaso da un’angoscia lancinante, nella fissità dell’instante che sta per esplodere, con mano incredula e tremate si toccò sotto la mascella. No, non è possibile. Di poco sporgente dal mento, dalla consistenza molle e appiccicosa, c’era uno strano piccolo lembo, appena appena sollevato.