Sulla tenacia o la folle corsa

2° giorno di viaggio | Giovedì 1 agosto 2013 | Cremona – Genova

LA CONQUISTA DEL TRAGHETTO
Sveglia di buonora, cappuccino e cornetto insieme alle donne delle pulizie, poi, con ancora la guancia sporca di zucchero a velo ed il segno del cuscino a mezzo viso, carico la Niña e la porto in strada. Destinazione principale: porto di Genova; chilometri che da esso mi separano: 200. Passaggio in mezzo ai monti: confermato Roger. Tempo a disposizione: 4 ore.
Una follia!

Con animo fermo, supero Piacenza, Castel San Giovanni, Stradella, sostando, di quando in quando, per chiedere ragguagli. La strada è lunga e la Statale 10 non sempre facile da imboccare, soprattutto nei passaggi attraverso rotonde prive di segnaletica, di fronte alle quali, stabilire la via principale, è come separar il grano da loglio*. Ma non c’è tempo per perdersi, né d’animo, né di strada! Il traghetto parte alle 13 ed io sono ancora ben lontana dalla meta. Giunta a Voghera – sono le 11 e mancano ancora 105 chilometri – con il sibillino dubbio sulla buona riuscita dell’impresa, mi fermo a prendere una tazza di caffè.

Nei momenti di forte stress è consigliabile prendersi un istante per ragionare.

BAR SPORT 2.0
Singolare la scena che mi si para davanti agl’occhi. Bar di paese, di fronte allo snodo principale delle vie – laddove tutto accade – tre vecchi se ne stanno seduti sulle sedie a controllar che ogni cosa sia a posto. Mi fermo, entro, e chi trovo? Un giovane ragazzo cinese e suo padre. Gli interni sono proprio quelli del Bar Sport, in tutto e per tutto, ma la gestione è nuova. Tre vecchi del paese, un bar, due cinesi. Frammento del tempo che cambia e della commistione umana alla quale assistiamo. Stupita delle inusitate pieghe che il processo di globalizzazione ha portato con sé, e con le orazioni in mente circa gli effetti del boomerang scagliato dall’avidità industriale, riprendo la via maestra, non prima però d’aver reso omaggio ai vegliardi, domandando loro la strada per Genova. Il più taciturno dei tre, il quale sin da principio mi scrutava silenzioso, mi sorride d’un candido sorriso di gengive, e con la mano degl’anni mi indica la strada davanti a lui.

Rimonto in sella al mio destriero, pronta, più che a seguir, a plasmare io stessa il mio destino e, lesta, proseguo attraversando i paesi di Tortona, Serravalle, Busalla. La strada si fa stretta e di montagna, con curve, tornanti e pendenze, ma io, io non guardo più nulla, né i nomi dei paesi, né il panorama, né l’orologio. Solo uno scorcio mi cattura, distogliendomi dalla più lucida, implacabile, concentrazione. In mezzo ai monti, nella foschia della pioggia che ancor non cade, laggiù all’orizzonte c’è un lembo di cielo che incontra il mare. La fissità di un istante come fosse un incoraggiamento sussurrato, poi di nuovo strada, solo strada. Passo il cartello anni ’80 con su scritto Genova città denuclearizzata e finalmente guardo l’ora: sono le 12.35. Ce la posso fare!

Genova (GE) | Ingresso in città

DETROIT
Più svelta ancora, con corpo e mente protèsi in un’unica direzione, sfreccio verso il mare. Dovrebbe essere lì, in fondo, da qualche parte. Scendo fra stradine, viali, e ponti con curve a gomito – palese segno di una cattiva salute dell’urbanista – ma il mare ancora non si vede. Ad un certo punto, con l’autostrada che si snoda a fianco e pure sopra, ad un semaforo chiedo ad un ragazzo in scooter dove sia il porto. Scatta il verde, mi fa cenno di seguirlo. Ingrano la prima, la seconda, eh, la ripresa della Ninetta non è proprio il suo forte, ma quantunque lo seguo! Mi segnala di accostarmi e lì, in mezzo ad un groviglio di strade inerpicate l’una sull’altra, nel rigóglio delle auto sfreccianti, mi spiega il percorso. L’unica informazione che si è riuscita a fissare è Stazione, perché del resto, oltre ad essere assolutamente complicata la strada, la mia attenzione è volta alle auto che ci sfrecciano a fianco, urlando e pivettando. “Hai capito?” mi fa lui e, vista la mia faccia perplessa, incalza subito: “Io ora devo svoltare, ma tu provaci. Provaci e vedrai che ce la farai!” Proseguo lungo la strada intricata, con radar sintonizzato su cartello Stazione o Porto, e massima attenzione all’accozzaglia di persone, macchine, furgoni, lanciati, come fossero biglie nella delirante partita dell’uomo, in mezzo alla strada. Domando indicazioni ancora a tre persone. Benedetto porto, dove sei? Infine, dopo un enorme cavalcavia, mi trovo in mezzo a gru, camion, container e cisterne. Un inferno di metallo perfettamente somigliante alla Detroit che tante pellicole cinematografiche ci hanno raccontato.

LA FOLLE CORSA
Giungo al porto, con le lancette dell’orologio che scoccano l’una esatta, rintoccando sul mio capo come il cuore battente di Poe di sotto le travi**, e chiedo degli imbarchi: “Ho il biglietto e la nave sta per partire!” grido forte. “Faccia la rotonda, si infili in quella strada – e per strada intendiamo uno spazio libero fra una torre di container e l’altra – e tenga la sinistra.” La prendo svelta. Corri Flavia – mi dico – corri! In mezzo alla polvere supero indemoniata un camion come fossi Crudelia de Mon a bordo di una Vespa, ed arrivo ad un cancello in ferro. “Dov’è l’imbarco?” chiedo affannata ad un agente, dal canto suo assolutamente restio ad intrattenersi con qualsivoglia essere umano, ma costretto, dalla mia insistenza, a rispondermi. “Ha sbagliato strada, torni indietro, alla rotonda, vada a sinistra.” Faccio subito, passo sotto ad un ponte di gru e finalmente vedo il cartello “Imbarco”. E sotto “Tunisia”. Ma no, Cristo Santo! Barcelona!
Mi avvicino ai due operatori dell’imbarco per Tunisi, intenti a verificare la bontà dei biglietti che, svolazzanti giungono da finestrini di auto piene zeppe, e domando loro informazioni. “Non è qua, deve fare il giro di quest’area, poi uscita, prenda la rampa di cemento, lì troverà l’ingresso”. Sono le 13.15 ed io corro, corro senza voltarmi, e, stracciato il codice della strada, non appena possibile faccio un’inversione a U, torno indietro, vedo la rampa, ma non il bussolotto con le indicazioni. Mi fermo, chiedo, mi rimandano a Tunisi. È una congiura!
I due uomini di prima mi guardano stupiti. “Ancora qua? Non ha trovato?” “Evidentemente no!” Spiegazione di nuovo e saluto “Alla peggio ci rivediamo fra un po'” mi fa uno di loro ridendo. “Guardi, non se la prenda a male,” rispondo “ma spero vivamente di no!” Stavolta l’indicazione è più dettagliata e, dopo aver nuovamente violato il codice della stradale con un’altra inversione in area a traffico limitato, finalmente vedo il cancello (del paradiso). Due uomini si avvicinano e mi chiedono “Imbarco Barcelona?” “Siii!” urlo stravolta. “Svelta che stiamo chiudendo!” Sfodero biglietto e passaporto come un prode eroe sguaina la spada, ed il più piccolo dei due mi timbra e m’appiccica l’adesivo più bello al mondo: rettangolo giallo con su scritto, in lettere maiuscole, Barcelona. Dopo di me chiudono i cancelli ed io, col cuore in gola d’ansia, d’eccitazione, e d’immensa gioia, porto la Ninetta dritta davanti al check-in. Sono le 13.35.

Ce l’abbiamo fatta ragazzi. Ce l’abbiamo fatta!

Genova (GE) | L'imbarco dell'eroe

CONTACHILOMETRI: 205
CONSIGLIO DEL GIORNO: se devi imbarcarti, studia a fondo gli accessi del porto
SCENA EPICA: imbarco della Niña col rombo del motore di cento centauri


Separar il grano da loglio – Letteralmente “Separare il buono dal cattivo”. Con licenza poetica al limite di James Bond, il proverbio quivi utilizzato va inteso come reale e concreta impossibilità di separare e/o discernere qualcosa. Ad esempio una strada.
** Nell’espressione Il cuore battente di Poe il buon intenditore potrà facilmente riconoscere l’artifizio letterario ed insieme il rimando accorato al racconto gotico “Il cuore rivelatore” di Edgar Allan Poe.